GLASGOW, 3 NOVEMBRE – Primi parziali risultati dalla COP26 di Glasgow: i leader di 110 Paesi si sono impegnati a porre fine alla deforestazione entro il 2030, con un investimento da 19,2 miliardi di dollari.
Sul tema la spaccatura per una volta non c’è stata. Come dimostrano le firme in calce alla dichiarazione sul piano condiviso da 110 nazioni per mettere fine già in questo decennio, non in un futuro incerto, alla sistematica “devastazione” di alberi per milioni di ettari: “Cattedrali della natura”, come le ha definite il premier britannico Boris Johnson, che permettono il respiro della Terra. “Queste cattedrali della natura, sono i polmoni del nostro pianeta. C’è ancora molta strada da fare”, ha sottolineato Johnson. Tra i firmatari della “Dichiarazione di Glasgow su foreste e terra” anche Jair Bolsonaro, Xi Jinping e Vladimir Putin, leader di Brasile, Cina e Russia, i tre paesi più spesso sul banco degli imputati per l’ambiente.
Si tratta di un progetto legato alla promessa di finanziamenti da 15 miliardi di sterline (quasi 20 miliardi di dollari): 8,7 coperti da fondi pubblici, 5,3 da investimenti privati. Impegni destinati ad andare anche a beneficio di “popolazioni indigene e comunità locali” che di quelle foreste sono “custodi”, ha giurato Johnson, non senza esaltare l’adesione a questo accordo di leader i cui Paesi coprono l’85% del patrimonio forestale globale: incluse la sterminata Russia di Vladimir Putin, l’Indonesia, il Congo, la Colombia e, più importante di tutti, il Brasile, il cui presidente Bolsonaro, si è guadagnato negli anni del suo mandato l’ostilità di India e di molti altri detrattori, avendo accresciuto, non certo attenuato, il disboscamento senza tregua della colossale selva pluviale amazzonica.
“Questo è il più grande passo avanti nella protezione delle foreste del mondo da una generazione”, ha affermato con entusiasmo la presidenza britannica della conferenza Onu sui cambiamenti climatici, che ha preso il via domenica in Scozia. Tra i Paesi che hanno aderito all’accordo figurano anche Stati Uniti e Canada. Saranno quindi mobilitati 5,3 miliardi di sterline di investimenti privati, di cui un miliardo sarà dedicato alla protezione del bacino del Congo, che ospita la seconda foresta tropicale più grande del mondo.
Johnson ha espresso “cauto ottimismo”, avvertendo però che resta ancora “molta strada da fare”, evitando prematuramente tutti “gli entusiasmi esagerati” e le “false speranze”.
In effetti per ora il summit ha prodotto per ora risultati soltanto parziali sulla questione chiave del contenimento delle emissioni nocive che alimentano la minaccia dei cambiamenti climatici; sull’impegno a mantenere l’innalzamento delle temperature del globo entro il tetto di 1,5 gradi in più rispetto all’era pre-industriale; e soprattutto sui tempi per passare dalle parole ai fatti: questioni che continuano a dividere i Paesi, inclusi quelli più grandi e storicamente responsabili dell’inquinamento, lungo linee di faglia ispirate a enormi interessi geopolitici, economici e a calcoli di consenso interno.
Mentre sulle Emissioni zero, Cina e India rimandano al 2070 la scadenza inizialmente prevista per il 2050, 100 Paesi si sono detti pronti a ridurre le emissioni di metano: hanno aderito all’iniziativa globale per ridurre del 30% “le emissioni di metano entro il 2030“, secondo quanto ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Ridurre il potente gas serra di un terzo rispetto ai livelli del 2020 “rallenterà immediatamente il cambiamento climatico”, ha detto, annunciando anche “un miliardo di euro per l’impegno globale sulle foreste”. Secondo la Coalizione per il clima e l’aria pulita e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, col raggiungimento di questo obiettivo si eviterebbero oltre 200mila morti premature, centinaia di migliaia di visite di emergenza legate al”asma, e oltre 20 milioni di tonnellate di perdite di raccolto all’anno.