ROMA, 31 GENNAIO – La missione di Maurizio Debanne di Medici senza Fontiere in Israele e Gaza si è conclusa. Quelle che pubblichiamo sono le ultime pagine del suo ‘Diario da Gerusalemme” che ci ha inviato prima di tornare in Italia.
20 Gennaio 2024
”Quando Léo Cans, il nostro capomissione a Gaza, ha visitato la terapia intensiva dell’ospedale Nasser ha trovato un bambino di 9 anni che vomitava sangue. È uno degli 80 feriti di un attacco aereo che ha ucciso 8 persone qualche giorno fa. “Penso che sopravviverà – dice Léo – ma questi attacchi sono indiscriminati”.. Ti chiedo adesso di pensare all’ospedale che conosci meglio. Chiudi gli occhi. Prova a vedere la porta principale d’ingresso. Voltati, guarda cosa c’è 150 metri più indietro: probabilmente un viale di ingresso, barriere automatiche o un parcheggio. Di certo vedrai persone che vanno e vengono, pazienti bisognosi di cure. Proprio lì, a 150 metri dall’ospedale, si è svolto l’attacco. Un nostro chirurgo racconta di bombardamenti pesanti, panico tra i pazienti e le persone che avevano cercato rifugio in questo ospedale. Ora sono di nuovo in fuga, con grandi buste di plastica che contengono i pochi beni a disposizione. E questi sono i fortunati che si sono salvati. Rendere insicuri gli ospedali, luoghi concepiti per salvare vite, è disumano. È straziante prendersi cura di queste persone. Straziante essere testimoni di tutto questo”.
23 gennaio
”La suocera di Noor ha le idee chiare: sua nipote si deve chiamare Salam, perché mai come oggi, da queste parti, c’è bisogno di Pace. Ma Noor non ha ancora deciso, è stanca e pallida. Ha bisogno di assumere ferro e vitamina C. Noor è una delle nostre pazienti in un ospedale a Rafah, appena starà meglio dovrà tornare a vivere nella sua tenda di plastica. La sua vera casa è a Jabalya, nel nord, ma oggi è ridotta a un cumulo di macerie. Nel letto a fianco riposa Reham, neomamma di un’altra bambina che un nome ce lo ha già.”Con questo sorriso – dice mostrando il volto della neonata a un nostro medico – non può che chiamarsi Amal (in arabo Speranza), la speranza – continua – incoraggia i palestinesi ad andare avanti nonostante gli attacchi indiscrimanti di questa guerra”.
Ma soprattutto, la Speranza, è l’ultima cosa che Reham vuole perdere.
25 gennaio
”Occorrerebbero almeno 5 interventi chirurgici per ciascuno dei feriti che curiamo a Gaza. L’atroce realtà con cui si deve fare i conti è che, dopo la prima operazione, è quasi impossibile garantire la continuità delle cure. I feriti sono troppi, mancano le forniture mediche, molto personale è fuggito per la paura. E così le condizioni dei pazienti peggiorano. È stato questo il destino di Fadi, un uomo di 40 anni, ferito alla gamba destra e alla spalla sinistra. Risparmio la descrizione del suo calvario e vado dritto alla sua condizione attuale: amputazione della spalla perché la ferita non è stata adeguatamente curata quando si trovava nel nord della Striscia. Oggi non può nemmeno camminare con le stampelle. E poi c’è Miriam, che a soli 6 anni, dopo aver perso madre, fratello e sorella in un attacco aereo israeliano, e probabilmente anche il padre da allora disperso, ha dovuto subire l’amputazione della gamba destra. Accanto a lei in ospedale c’è sua zia, con grandi ferite a un braccio e a una gamba. L’altro giorno abbiamo dovuto medicare la ferita di Miriam. Senza anestesia. Gli anestetici erano terminati. La medicazione è durata 30 minuti, giusto il tempo di pulire la ferita. Le urla assordanti della bambina si sono concluse con il grido più straziante: mamma. Non ci si può aspettare altro da una bambina di 6 anni, ma non a Gaza, dove una guerra senza regole porta solo dolore e morte. E scene come questa si ripetono, una dopo l’altra, in diversi ospedali dove lavoriamo.
26 gennaio
”Scrivo dall’aereo, la mia missione è finita. Mi ritorna in mente tutto. L’abbraccio più lungo me lo ha regalato Marilou. Madre e nonna. Conosce bene la Palestina, con lo scoppio della guerra ha dato subito la sua disponibilità a partire come operatrice umanitaria. Marilou riabbraccerà i suoi nipoti a fine febbraio. Felipe oggi è contento. Un nuovo nostro carico di aiuti è arrivato a destinazione. Pauline un po’ meno, ogni giorno le davo metà della mia Moka. L’aereo è decollato. Lungo il corridoio una bimba balla a piedi nudi e a fianco a me due bambini guardano i Puffi. Intanto, a Gaza, i bambini stanno vedendo cose che non vorremmo mostrarvi mai. Sono arrivato e vado via con la guerra ancora in corso. Non mi ero fatto illusioni. Enrico, uscito qualche giorno fa da Gaza, ha detto: “Siamo una goccia nell’oceano”. È vero. Ma siamo una “goccia di splendore, di umanità” (De Andrè)”. Maurizio.