ROMA, 11 LUGLIO – Per la nostra sopravvivenza dipendiamo da circa 50 mila specie selvatiche e se queste si ridurranno a causa della perdita di biodiversità il 70% della popolazione mondiale è a rischio. Si tratta di animali terrestri, pesci, alghe, funghi e alberi, sempre più sfruttati quindi in pericolo. A lanciare l’allarme è la Piattaforma intergovernativa scientifica et politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes) dell’Onu in un nuovo rapporto sullo stato di salute della fauna e della flora, indicando un declino della biodiversità, e sottolineando l’urgenza di un suo utilizzo maggiormente sostenibile. ”Nel mondo, sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, miliardi di persone dipendono e usufruiscono dell’utilizzo di specie selvatiche per la loro alimentazione, per la medicina, l’energia, i propri redditi e molte altre finalità” hanno riferito 85 esperti delle Nazioni Unite in scienze sociali e naturali,e in comunità indigene. Queste specie sono ”una posta in gioco primordiale per la sicurezza alimentare. Questa dipendenza è ancora più marcata per le popolazioni povere oltre a rappresentare fonti significative di reddito e di impiego” ha spiegato Jean-Marc Fromentin, uno dei co-autori dello studio.
Queste 50 mila specie vengono catturate e utilizzate nella pesca, la caccia, il taglio della legna, la raccolta di animali terrestri e di piante. In effetti lo sfruttamento eccessivo riguarda il 34% delle riserve di pesce, con squali e razze tra le specie più colpite negli ultimi 50 anni, e in tutto almeno 449 specie minacciate su 1.200. Messi in pericolo dalla caccia 1.341 mammiferi selvatici e dalla raccolta il 12% di specie di alberi e piante selvatici, tra cui cactus e orchidee. Di fatto, una persona su cinque dipende da piante selvatiche, da alghe e funghi per la propria alimentazione e per i redditi, mentre 2,4 miliardi di esseri umani necessitano di legno per cucinare.Le specie di alberi selvatici rappresentano, ad esempio, i due terzi del legno utilizzato per l’industria. Fino alla pandemia di Covid-19, le aree protette accoglievano ogni anno 8 miliardi di visitatori desiderosi di osservare la natura, con un fatturato globale di oltre 591 miliardi di euro. Il traffico illegale di queste specie è il terzo al mondo dopo quelli di esseri umani e di droghe, per un valore tra 69 e 199 miliardi di dollari l’anno. ”I Paesi del Sud del mondo non sono gli unici ad utilizzare in abbondanza le specie selvatiche. Di pesce ne consumiamo nei nostri medicinali, nei cosmetici, per gli hobby e nelle decorazioni. È un uso molto più diffuso rispetto a quanto la gente crede” ha precisato Marla Emery, co-direttrice del rapporto e specialista delle foreste.
Nel suo ultimo rapporto 2019, l’Ipbes aveva già avvertito che nel mondo un milione di specie è a rischio estinzione – pari a una su otto – principalmente per il loro sfruttamento eccessivo da parte dell’uomo. Così l’umanità sarebbe sul punto di vivere la sesta estinzione di massa più importante della sua esistenza: l’attuale tasso di estinzione delle specie risulta essere decine o centinaia di volte superiore a quello registrato negli ultimi dieci ultimi milioni di anni, avverte il rapporto. Se oggi lo stato di salute di queste specie, e di conseguenza il benessere dell’umanità, è cupo, gli esperti hanno anche veicolato un messaggio di speranza e proposto soluzioni concrete.
La prima da percorrere è sicuramente quella di un uso delle specie selvagge che sia ‘sostenibile e durevole nel tempo, per le generazioni future’ hanno suggerito gli studiosi, auspicando un maggior coinvolgimento dei popoli autoctoni, ”più atti a gestirle”. Ciò presuppone ”il rispetto di regole piuttosto semplici di reciprocità, il rispetto della natura e degli animali, ma anche delle zone sacre che da noi equivalgono alle aree protette” ha spiegato Fromentin. Tra le proposte avanzate dagli esperti Onu c’è la lotta alla pesca illegale, la soppressione delle sovvenzioni pubbliche dannose per le specie, il sostegno alla piccola pesca, la creazione di certificazioni per lo sfruttamento delle foreste, una ridistribuzione più equa dei benefici e dei costi legati alle specie selvagge.
Tra le raccomandazioni, l’Ipbes ha insistito in particolare sulla necessità di riconoscere e sostenere diverse forme di conoscenza, in primis quella delle popolazioni indigene e delle comunità locali, finora ”troppo spesso sottoutilizzate e sottovalutate”.Lo studio in questione, stilato da 85 esperti di 50 Paesi diversi, è il frutto di 4 anni di lavoro e dell’analisi di 6.200 dati diversi da parte del Giec della biodiversità, ovvero il Gruppo di esperti intergovernativi sull’evoluzione del clima, istanza creata nel 2012 che riunisce 139 governi. Il documento è stato adottato nel corso di una sessione plenaria tenuta alla sede dell’Ipbes, a Bonn. La sua importanza e la novità risiedono nel fatto che si tratta della prima valutazione globale dell’utilizzo umano delle specie selvatiche, mentre finora si aveva soltanto una visione frammentata sulla pesca e lo sfruttamento del legno.
Sulla Terra il numero di specie viventi viene stimato tra 8 e 10 milioni, di cui poco più di 2 milioni sono già state descritte. Gli insetti rappresentano i tre quarti delle specie conosciute. In futuro, è concreto il rischio che tali specie siano sottoposte ad ulteriori pressioni, a cominciare dalla crescita demografica che aumenterà il consumo di cibo. Secondo l’Onu saranno cruciali per il futuro di tutte le specie due prossimi appuntamenti internazionali: la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatici minacciate di estinzione (Cites), che si terrà a Panama a novembre, e la COP15 sulla biodiversità in agenda in Canada. Con due anni di ritardo a causa delle pandemia di Covid, la comunità internazionale è chiamata insomma ad adottare un nuovo assetto mondiale per porre fine all’erosione della biodiversità entro il 2030.