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Grammenos Mastrojeni (UpM): lotta al cambiamento climatico per favorire integrazione e pace

ROMA, 15 OTTOBRE – Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano di carriera, è il Segretario Generale Aggiunto per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione per il Mediterraneo (UpM), organizzazione intergovernativa di stampo regionale che ha come obiettivo quello di accrescere la stabilità e la cooperazione tra gli Stati dell’area mediterranea in diversi settori. Mastrojeni spiega oggi a OnuItalia il funzionamento dell’UpM, in particolare in relazione all’operato delle Nazioni Unite, e presenta il dossier dell’organizzazione in ambito di Energia e Clima, settori di sua competenza all’interno della stessa.

Qual è il modello operativo ed in che framework opera l’Unione per il Mediterraneo, in particolare per quanto riguarda il rapporto con le Nazioni Unite e le agenzie che vi gravitano intorno?

Il rapporto è di collaborazione operativa stretta. Infatti, ogni volta che una nostra competenza interseca una competenza delle Nazioni Unite il tentativo è quello di operare congiuntamente ed in coordinamento. L’organizzazione opera nel mondo reale sulla base di mandati consensuali che otteniamo in occasione di riunioni e dichiarazioni ministeriali. Un ostacolo di tipo organizzativo al rapporto è di natura geografica, poiché l’UpM è l’unica organizzazione che ha come competenza un’area (quella mediterranea) che ha una sua unità per ragioni storiche, culturali, economiche etc., ma che all’interno del framework onusiano è ripartita in tre aree geografiche differenti (Europa, Africa e Asia). Nonostante ciò, sul piano operativo siamo assolutamente in sintonia, come dimostrato ad esempio dalla nostra partecipazione in qualità di osservatori alla più importante conferenza onusiana del futuro prossimo, la COP26, ma possiamo citare anche la stretta collaborazione operativa con UNDP o sulla tematica energetica, che ci ha visto partecipi della riunione ministeriale su Clima ed Energia che si è svolta al Cairo in vista della COP27 che si terrà in Egitto.

Lei è anche un professore universitario specializzato nella relazione tra degrado ambientale ed impatto economico, sociale e di sicurezza, questa sua specializzazione ha un riscontro pratico all’interno dell’organizzazione?

Sicuramente sì. Il mandato dell’organizzazione infatti ha come obiettivo quello di contribuire alla creazione di un Mediterraneo giusto e pacifico, e questa sfida ha attualmente come nemico principale il cambiamento climatico. Inoltre, il contrasto al cambiamento climatico è complicato dalle enormi asimmetrie che presentano gli Stati parte della nostra organizzazione, asimmetrie che si presentano in numerosi ambiti ma che sono riscontrabili anche solamente facendo riferimento al dato sugli scambi internazionali dei vari paesi, dei quali il 90% avviene tra Stati della sponda nord del Mediterraneo, 9% tra nord e sud e solo 1% tra Stati del sud.

In che modo queste asimmetrie impattano sulla risposta al cambiamento climatico?

La disparità di mezzi a disposizione degli Stati fa si che un problema facilmente risolvibile negli Stati più attrezzati si tramuta in una situazione degradante nei paesi più fragili, in particolare per quanto riguarda ciò che è definito ‘way-out’, ovvero la risposta concreta della popolazione ai disastri. È proprio nella way-out che si insinuano i fenomeni criminali nei paesi più fragili, sia in ambito pubblico che privato. L’illegalità si interseca poi con un altro dei fenomeni più problematici all’interno della nostra area geografica, cioè quello delle migrazioni. Il Mediterraneo (e le sue acque) è infatti l’area che si scalda più rapidamente del globo, e ciò risulterà in 250 milioni di persone soggette a scarsità idrica nel 2050. Questo dato basta a dare un’idea sulla portata di quelli che io definisco “movimenti forzati” più che migrazioni. Oltretutto, il riscaldamento globale contribuirà ad innalzare le acque del Mediterraneo fino ad un metro alla fine del secolo, con un impatto devastante su alcune città costiere, tra cui ad esempio la nostra Venezia, ma soprattutto sulle aree coltivabili che nel bacino Mediterraneo sono localizzate maggiormente in prossimità delle coste, basti pensare al fertile bacino del Nilo.

Un metodo di contrasto al cambiamento climatico è il ricorso alle (dispendiose) fonti rinnovabili di energia, percorso intrapreso dall’Unione Europea. Le asimmetrie tra Paesi introdotte in precedenza sono un limite alla transizione di tutta l’area o gli Stati più abbienti aiutano i più fragili, magari con il supporto dell’UpM?

Le posso fare l’esempio della centrale eolica di Tafila in Giordania, per la quale l’UpM si è spesa tramite un meccanismo di agevolamento finanziario all’investimento noto come ‘labelling’. Ma il discorso che facciamo noi di UpM è più ampio ed ha radici di natura scientifica, economica e di sicurezza. Non esiste infatti, in termini di potenza economica, un solo paese dell’area capace di farsi carico dell’intero contrasto al cambiamento climatico, ma gli uni hanno bisogno degli altri. Faccio un esempio pratico: recentemente le due sponde del Mediterraneo hanno cominciato un’intensa collaborazione in ambito forestale e agricolo per una semplice ragione, cioè che il Sud necessita delle tecnologie dei Paesi del Nord nella preservazione e coltivazione delle specie, mentre il Nord necessita delle specie autoctone del Sud poiché il cambiamento climatico farà somigliare sempre di più la futura sponda nord a quella sud attuale. E, per rispondere alla domanda precedente, questo concetto può essere applicato tanto all’agricoltura quanto all’energia. L’enorme potenziale della produzione di energia solare ed eolica al Sud non può prescindere dall’assorbimento di questa produzione da parte dei mercati del Nord, che a sua volta senza questa produzione non potrà raggiungere gli obiettivi stabiliti dal Green Deal. In parole povere, ciò che serve a contrastare il cambiamento climatico coincide con ciò che serve a porre fine agli endemici conflitti che coinvolgono l’area mediterranea da tempo e ad assottigliare le asimmetrie.

Che risvolto pratico hanno questi ragionamenti sul mandato dell’organizzazione alla prossima COP?

La prossima COP ha tra i suoi elementi più discussi quello del ricorso allo strumento di “technology transfer”, che è purtroppo visto dalla maggior parte degli addetti ai lavori e dall’opinione pubblica come un regalo tecnologico dei più avanzati ai meno. In realtà, noi sosteniamo che la nostra regione debba andare incontro ad un “knowledge and technology sharing”, perché la tecnologia non è mera meccanizzazione. La sponda sud del Mediterraneo presenta edifici millenari a forma di cono, detti yakhchal, dei veri e propri frigoriferi naturali che non consumano alcun watt. Oppure, delle canalizzazioni sotterranee dette qanat, che hanno permesso ai persiani di captare l’umidità sotterranea e creare degli autentici giardini nel deserto. O un’edilizia tradizionale che ha sistemi di refrigerazione efficacissimi, a dispendio energetico zero grazie all’azione del vento. Al sud hanno dunque quasi 5000 anni di esperienza nella gestione di territori aridi, come presumibilmente si presenteranno i nostri tra qualche decennio, ed in questo contesto il ‘knowledge sharing’ assume un significato rilevante. Se aggiungiamo, di nuovo, che ciò potrebbe contribuire a ridurre conflitti endemici ed asimmetrie, prendiamo non due ma tre piccioni con una fava.

Dunque il contrasto al cambiamento climatico come strumento per raggiungere l’obiettivo principale dell’organizzazione, cioè pace e giustizia nel Mediterraneo tramite la cooperazione?

Precisamente. Abbiamo da poco pubblicato un report sull’integrazione e le asimmetrie sviluppato insieme all’OCSE che, per chi volesse, elabora nel dettaglio lo stato e le prospettive della nostra strategia in merito. (@giorgiodelgallo)

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