(Di Nino Sergi)
ROMA, 27 OTTOBRE – Cresce il dibattito sul Memorandum di intesa Italia-Libia, firmato il 2 febbraio 2017 da Fayez Mustafa Serraj, presidente del Consiglio Presidenziale e Paolo Gentiloni presidente del Consiglio dei Ministri, con validità triennale. Potrà essere rinnovato tacitamente “salvo notifica per iscritto di una delle due Parti contraenti, almeno tre mesi prima della scadenza del periodo di validità”, cioè il 2 novembre prossimo. Il governo italiano si trova di fronte a tre possibilità: a) rinnovo tacito per altri tre anni; b) disdetta con “notifica per iscritto”; c) modifica “con uno scambio di note, durante il periodo della sua validità”. Stando al testo sottoscritto, il memorandum è finalizzato alla stabilizzazione del paese, al contrasto al traffico di esseri umani, alla lotta al terrorismo, a porre fine alle morti in mare e ai viaggi gestiti dalla criminalità. Si tratta di tre pagine nelle quali le parole ‘diritti umani’ compaiono una sola volta, indicando negli obblighi internazionali sottoscritti dalle parti su tali diritti lo strumento per “interpretare e applicare” il memorandum.
- I. La domanda da porsi
La crisi libica è umanitaria ma è soprattutto una grave crisi dei diritti umani, ignorati, disprezzati, calpestati da crimini intollerabili, oltre che crisi politica e di governance. Di fronte a questa situazione ed alla sua complessità che non ammette semplificazioni, la domanda che mi pongo è soprattutto questa: nella difficile e complessa realtà della Libia, per riuscire ad alleviare le sofferenze e per migliorare il rispetto dei diritti umani, anche solo un poco ma in modo progressivo con piccoli significativi passi, è meglio abolire il memorandum di intesa o rinnovarlo rendendolo in merito maggiormente impegnativo e verificabile?
Esprimo subito la mia personale risposta, consapevole che nel dibattito attuale potrebbe essere contestata da non pochi amici che stimo. Di fronte alle ambiguità e falsità della politica e di fronte alle ributtanti immagini e testimonianze che ci arrivano dalla Libia, l’opzione del rifiuto di qualsiasi accordo sembrerebbe infatti essere l’unica ragionevole. Ritengo invece che occorra valutare e riflettere con maggiore attenzione, proprio avendo negli occhi quelle impressionanti immagini. Siamo così certi che abolendo il memorandum le persone più vulnerabili troveranno maggiore beneficio in Libia, dentro e fuori dai centri ed alle sue frontiere terrestri e marittime? Che avranno maggiori speranze di uscire dalle loro sofferenze? Che ci sarà più spazio per l’azione umanitaria, le pressioni per il rispetto dei diritti umani, le iniziative per la stabilizzazione, il dialogo tra le parti, l’azione internazionale? E’ indubbio che così com’è il memorandum sia politicamente e umanamente inaccettabile. Penso però che rendendolo trasparente e completandolo con un accento sui diritti umani, deprecabilmente sottovalutati nel testo in vigore, e monitorandolo permanentemente, sia opportuno rinnovarlo. Nelle conclusioni cercherò di evidenziare quali chiarificazioni e integrazioni.
E’ un convincimento che è frutto di approfondimento e riflessione basati anche su ciò che mi ha guidato per anni in contesti spesso complessi e difficili: tendere a migliorare le situazioni, a cercare risposte a bisogni dove predominano violenza e disumanità, per potere essere vicino e attenuare le sofferenze delle persone, anche se in modo limitato. La denuncia, specie in tema di diritti umani, rimane indispensabile ma per essere incisiva dovrebbe anche essere accompagnata da credibili e sostenibili proposte. Il memorandum Italia-Libia è particolarmente divisivo: va quindi affrontato cercando di approfondire e valutare tutti i pro e i contro che la complessità e le contraddizioni di quel paese e la problematicità delle relazioni bilaterali e internazionali sollecitano.
- II. Serve un segnale di cambiamento
Il dibattito vede confrontarsi posizioni diverse e quindi permette gli approfondimenti che il tema richiede. Importanti organizzazioni umanitarie e della società civile, dal Tavolo Asilo al Forum delle Ong internazionali in Libia chiedono decisamente l’annullamento del memorandum insieme ai precedenti accordi. “Nelle relazioni con la Libia per la gestione dei flussi migratori è il momento della discontinuità. Occorre un nuovo inizio, che rimetta al centro la ricerca di soluzioni finalizzate alla tutela della vita delle persone e del diritto internazionale che ne è garanzia”, si afferma puntando giustamente il dito su “quei governi impegnati soltanto a contrastare i flussi migratori senza alcun interesse a governarli”. Il presidente della Camera Roberto Fico ha chiesto la revisione del memorandum, perché la situazione è cambiata rispetto a tre anni fa, con una guerra in atto e con l’universale riconoscimento che la Libia non può considerarsi ‘porto sicuro’ dati gli orrori nei centri di detenzione. Sono alcune tra le significative prese di posizione.
Non vi è dubbio che gli accordi bilaterali degli anni recenti siano stati inquinati da poca trasparenza e da opacità istituzionale che non ne ha reso possibile alcuna chiara valutazione: dal Trattato di amicizia tra Italia e Libia del 2008 alla Dichiarazione di Tripoli del 2012 e al successivo accordo tra i ministri dell’Interno Cancellieri e Al-Taher nello stesso anno, al memorandum del 2017 tra Gentiloni e Serraj. Anche in questo senso un segnale di cambiamento è necessario. Senza trasparenza è in gioco la qualità della nostra democrazia.
La mancanza di una politica migratoria complessiva è il grande vulnus di tutti i governi e partiti di questo secolo. Si sono limitati a cercare di contenere gli arrivi, negando ogni possibilità di ingresso regolare. Hanno così favorito l’immigrazione irregolare gestita da trafficanti e la diffusione di preoccupazioni e paure, subito strumentalizzate a fini politici con un’azione tossica che è riuscita ad aggredire i valori di solidarietà, umanità e fratellanza che sono alla base della nostra civiltà. La non capacità/volontà di definire una chiara politica migratoria, in Italia e in Europa, potrebbe produrre gravi conseguenze sulla tenuta sociale e sugli sviluppi politici, di cui ci sono già i segnali.
- III. I centri di detenzione e le vulnerabilità
Lo sguardo è soprattutto rivolto ai salvataggi in mare e ai centri di detenzione di immigrati irregolari le cui immagini e testimonianze ci fanno rabbrividire per le condizioni di reclusione ma soprattutto per le torture e i trattamenti crudeli, inumani, degradanti che colpiscono anche donne e bambini. Tali immagini hanno indotto il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres a definirsi inorridito dalle scene mostrate, dichiarando che i responsabili potrebbero essere accusati di crimini contro l’umanità.
I centri governativi sono strutture carcerarie, dato che l’immigrazione irregolare è considerata dalla legislazione libica un reato punibile con la reclusione. Analoghe strutture detentive, gestite arbitrariamente e con condizioni detentive disumane e degradanti, sono purtroppo la normalità anche in molti altri paesi, e non solo in Africa; con poca attenzione dei media e tollerati dalla comunità internazionale. Amnesty International le denuncia spesso, riuscendo a far liberare persone innocenti. Al momento 6-700 mila immigrati vivono nell’ambiente urbano, facendo parte dell’economia libica (prima della rivoluzione del 2011 ben due milioni lavoravano nelle aziende agricole, la pesca, l’artigianato, i settori industriali) e circa 5.000 sono quelli rinchiusi in una trentina di centri governativi. I problemi di queste strutture riguardano le degradanti condizioni di vita, gli abusi, la non considerazione e tutela di bambini, donne e persone vulnerabili, l’arbitrarietà della detenzione, la corruzione e gli interessi personali e di clan che un governo debole e in guerra ha serie difficoltà ad affrontare da solo.
E’ necessario il supporto dell’Onu e dei paesi interessati per contribuire al miglioramento dei centri governativi ed alla loro progressiva chiusura e sostituzione con strutture controllate sotto il ministero della Giustizia, gestite sulla base dello stato di diritto e del giusto processo, a partire dalla particolare attenzione alla protezione dei minori, delle donne e dei più deboli. Sarà possibile? Ci vorrà tempo, occorrerà affrontare e superare molte difficoltà ma è una strada obbligata per il governo libico e per il processo di stabilizzazione. Per percorrerla serve il sostegno internazionale e servono intese. La Libia ha ratificato o aderito a molti trattati e convenzioni, sia internazionali che africani, che la impegnano al rispetto dei diritti umani, con particolare riferimento alla protezione dei minori, le donne, i rifugiati in Africa, l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razzale, i diritti dei lavoratori migranti, le persone con disabilità, la lotta alla criminalità organizzata, l’abolizione della schiavitù, la lotta al traffico di persone, il trattamento dei prigionieri e dei feriti di guerra, la presa di ostaggi. Obblighi assunti liberamente dalla Libia e tuttora in vigore. Anche nella situazione destabilizzata e di guerra in cui si trova la Libia, l’Onu, l’Unione europea, l’Unione africana e gli Stati interessati potrebbero esercitare maggiori pressioni e stipulando intese con il governo libico per la loro applicazione ogniqualvolta possibile.
Con il possibile miglioramento e la progressiva sostituzione delle strutture esistenti, i centri governativi potrebbero garantire con il supporto delle organizzazioni internazionali: i) una detenzione più rispettosa della dignità umana e dello stato di diritto; ii) l’organizzazione di programmi con l’Oim e altre organizzazioni per il ritorno assistito di coloro che, delusi dal sogno migratorio, chiedono di essere aiutati a ritornare a casa; iii) la valutazione da parte dell’Unhcr delle richieste di protezione internazionale, distribuendo nei paesi disponibili, in Africa e negli altri continenti, le persone selezionate; iv) la libera scelta del migrante di rimanere in Libia per lavoro o di procedere autonomamente per altre possibili mete africane. Per arrivarci, occorrerà tenere presenti gli interessi e il business che si sono consolidati negli anni intorno ai centri di detenzione. Non potranno certo essere annullati per decreto ma possono essere compensati con risorse e modalità alternative. Fa ribrezzo ma questa è la realtà, gestita da milizie e poteri diffusi sul territorio, che rappresenta per molti la fonte del proprio sostentamento.
Il vero problema, per ora irrisolvibile, sono i centri di detenzione illegali nelle mani di milizie criminali dedite anche alla tratta e al commercio di esseri umani, schiavi nelle mani di chi decide il loro destino di vita, sofferenza o morte. Centri dove torture, sofferenze, abusi, sfruttamento, disprezzo della vita umana sono all’ordine del giorno, con una regolare presenza di persone senza il minimo spazio di libertà e di dignità. Un business di enormi dimensioni che corrompe tutto e tutti e con consolidati collegamenti internazionali. Anche le sanzioni internazionali contro alcuni tra i più efferati trafficanti possono poco finché questi rimangono nel loro contesto criminale in Libia. Finché non si arriverà alla stabilizzazione del paese e al riconoscimento e rafforzamento delle Istituzioni ben poco potrà essere fatto per contrastare ed eliminare questa piaga. Si sono spesso confusi questi centri con quelli governativi, involontariamente distraendo la focalizzazione dell’impegno internazionale sulla fine dell’attuale sistema detentivo governativo per gli immigrati irregolari che, contrariamente ai centri illegali, è riformabile. A piccoli passi, con tempi più lunghi di quelli che vorremmo, ma riformabile.
E’ stata ammessa l’apertura di una struttura di transito gestita dall’Unhcr a Tripoli, insufficiente rispetto alle persone che avrebbero bisogno di protezione internazionale. Anche per le agenzie dell’Onu l’agibilità nei centri di detenzione rimane molto limitata. Nei punti di sbarco dove vengono riportate le persone intercettare in mare dalla Guardia costiera libica, l’Unhcr offre assistenza e protezione per evitare maltrattamenti, registrando chi potrebbe essere idoneo al riconoscimento dello status di rifugiato. Chi non lo è, può essere seguito dall’Oim, sempre con molte limitazioni e difficoltà, dopo il trasferimento nei centri governativi di detenzione. La vulnerabilità è ampiamente diffusa tra gli sfollati interni (circa 300 mila dall’inizio degli scontri bellici nell’aprile scorso) e tra i cittadini bloccati nei comuni trascurati al sud e nelle aree orientali e occidentali. Alcune Ong riescono a fornire aiuto prezioso anche in alcune di queste aree, oltre che nei centri urbani.
Data la situazione di guerra, l’instabilità, le diffuse forme di economia criminale, la debolezza delle istituzioni, l’insensibilità ai diritti umani, il disprezzo e lo sfruttamento dei migranti si dovrebbe fare di tutto per non fare giungere in Libia arrivi di nuovi immigrati dalle rotte africane e per aiutare tutti coloro che, fallito il sogno migratorio, intendono ritornare nei propri paesi o in paesi confinanti. Anche la meta europea, che per molti ha rappresentato il sogno realizzato, potrà esserlo ormai solo per pochi, attraverso i corridoi umanitari e le ripartizioni di richiedenti protezione internazionale definite dall’Unhcr. Non esistono a mio avviso le condizioni, in questa fase, per fare di più, specie di fronte all’incapacità di definire una complessiva politica migratoria. Non è onesto affermare ‘apriamo le porte e accogliamoli tutti’, producendo tra l’altro uno scontato e pericoloso effetto opposto nella società, difficilmente governabile. L’accoglienza è un valore ma deve anche corrispondere all’effettiva possibilità di essere dignitosa, condivisa, inclusiva, inserita nel progetto di società, di lavoro e di welfare di chi accoglie. Uno Stato ha non solo il diritto ma il dovere di dotarsi di regole – rispettose dei diritti e della dignità di ogni persona e al contempo rigorose – che impediscano arrivi irregolari, indiscriminati, incontrollati e prevedano l’effettivo allontanamento di chi ha contravvenuto a tali regole, salvi i casi di forza maggiore previsti e protetti dal diritto internazionale. L’urgenza di una politica migratoria è evidente e il Global Compact sulle migrazioni potrebbe fornire le indicazioni indispensabili.
- IV. I salvataggi in mare
Le Ong sono intervenute in mare dopo aver valutato l’inadeguatezza dell’intervento pubblico, italiano e europeo, a seguito della chiusura dell’operazione Mare Nostrum nell’ottobre 2014. I 19 mila morti e dispersi nelle acque del Mediterraneo da quel terribile 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa rappresentano una carneficina che deve interrogare tutti, non solo le Ong. Salvare ogni vita umana è un dovere di tutti, un imperativo. Di fronte al ritiro delle istituzioni, esse hanno voluto esserci, alla ricerca talvolta disperata di bambini, donne e uomini in balia delle onde. Per le Ong umanitarie è stato ed è un imperativo. Si è cercato di screditarle, con una “macchina del fango” a cui hanno partecipato anche commissioni parlamentari, mentre agiscono in mare coordinandosi con i soggetti istituzionali preposti, in particolare la guardia costiera e le capitanerie di porto, scambiando informazioni e ricevendo l’indicazione del “porto sicuro” verso cui dirigersi. Operano nell’osservanza delle prescrizioni nazionali e internazionali sulla ricerca e il salvataggio in mare, che prevedono anche il loro stesso superamento in caso di grave e urgente necessità per la vita delle persone.
“Taxi del mare”, sono state definite. Definizione indecorosa oltre che falsa e strumentale a bassi fini politici sulla pelle delle persone che rischiano la morte in mare. E’ difficile per le Ong nutrire considerazione per chi, ai più alti livelli governativi si è permesso una simile affermazione. La politica, tutta, deve interrogarsi e vergognarsi perché non è riuscita a definire alcuna seria politica migratoria, nel momento in cui sarebbe stato vitale averla e seguirla governando con intelligenza la realtà dell’immigrazione che, proprio perché esiste da sempre e continuerà ad esistere, va governata. L’impossibilità di ingressi regolari ha prodotto irregolarità, affidando alla criminalità il ‘governo’ dei flussi migratori. Anche la sottovalutazione dell’esistente, delle centinaia di migliaia di immigrati obbligati a vivere in Italia nell’irregolarità, alla mercé di possibili ricattatori e sfruttatori, senza poter emergere e sanare la propria posizione inserendosi pienamente nel tessuto sociale e produttivo a beneficio della collettività, ha accresciuto precarietà e insicurezza.
Segnali di dialogo sono arrivati in questi giorni con l’incontro dei rappresentanti di alcune Ong impegnate nelle azioni di salvataggio dei migranti con il ministro Luciana Lamorgese e alti funzionari dell’Interno, degli Esteri e del Comando generale del corpo delle Capitanerie di porto. E’ un primo passo per l’avvio di una interlocuzione diretta tra le parti che potrebbe portare al superamento del clima di criminalizzazione dei soccorsi in mare e delle organizzazioni impegnate nei salvataggi. Le Ong si augurano che “il dialogo torni al vero cuore del problema: la necessità di salvare vite nel Mediterraneo e di definire politiche sulla migrazione più ordinate, sostenibili e umane”. Il dialogo potrà anche contribuire a chiarire l’impossibilità di far ritornare in Libia le persone salvate, anche se nel 2018 l’IMO, autorità marittima Onu, ha inserito nel Global SAR Plan l’area libica di ricerca e soccorso. Molte sono infatti le dichiarazioni ufficiali a livello internazionale che affermano che la Libia non può essere considerata ‘porto sicuro’ nel quale potere sbarcare le persone salvate. La stessa guardia costiera è stata denunciata per essere coinvolta in gravi violazioni dei diritti umani dei migranti e sono stati accertati comportamenti in mare intollerabili verso i migranti e le Ong.
I corridoi umanitari rappresentano una straordinaria risposta alla richiesta di protezione e si stanno convintamente ampliando dall’Italia ai paesi europei. Una politica migratoria richiede però anche altro. L’Italia dovrebbe ristabilire precise e chiare regole per gli ingressi, esigendone il rispetto, in modo da aprire vie legali e regolate a chi intenda venire in Italia per lavoro o per studio, anche sperimentando strumenti innovativi per la migrazione circolare e quella ciclica legata alla stagionalità. E’ una delle priorità per potere uscire definitivamente dalla mentalità emergenziale e per potere dare inizio ad attive, condivise ed efficaci politiche di integrazione. Solo l’apertura agli ingressi regolari può legittimare opzioni politiche di fermezza contro un’immigrazione incontrollata. Dando così ai cittadini ed alle loro percezioni e paure – da tenere in seria considerazione – il segnale che davvero le cose stanno cambiando grazie a politiche che possono governare l’immigrazione in modo ordinato, regolare e sicuro.
- V. Il Memorandum Italia-Libia
Il memorandum si colloca nel complesso contesto che, con inevitabili incompletezze, ho cercato di tracciare. Torno a ripetere il mio convincimento: è meglio che il memorandum sia rinnovato, con gli indispensabili chiarimenti a garanzia della trasparenza e con integrazioni che possano assicurarne la positività rispetto alla sua disdetta. Potrebbe trattarsi di uno scambio di nota formale, concordata e controfirmata, in grado di fornire chiarezza in merito ai diritti umani che devono impegnare entrambe le parti, al monitoraggio valutativo regolare, al sostegno non solo tecnico ma anche di accompagnamento alla guardia costiera (per formare ed evitare gli abusi a cui abbiamo assistito), all’azione delle organizzazioni internazionali. E’ l’opzione dei piccoli ma significativi passi, realizzabili e verificabili: gli unici possibili nella difficile situazione libica.
Percorrendo il testo del memorandum che definisce brevemente e in modo generico la cooperazione bilaterale, due mi sembrano in particolare le questioni da chiarire e precisare. In estrema sintesi:
a) In merito ai centri di detenzione governativi, “la loro predisposizione, la formazione del personale, la fornitura di medicinali ed altri beni di prima necessità, la determinazione del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine o la verifica delle condizioni confacenti all’accoglienza in altri Stati”, è indispensabile che la cooperazione sia vincolata al rispetto dei diritti umani e della dignità della persona, alla primaria tutela dei minori, alla protezione delle donne, al divieto di tortura ed altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, come stabilito dai trattati e convenzioni a cui entrambi i paesi hanno aderito. Che si sviluppi dando riconoscimento e sostegno alle organizzazioni internazionali che operano in Libia nel campo delle migrazioni e dell’assistenza umanitaria. Che sia monitorata e valutata regolarmente dal comitato misto previsto dal memorandum, che non dovrà riferirsi solo agli adempimenti tecnici e dovrà comprendere presenze italiane e libiche che ne garantiscano la trasparenza.
b) In merito al “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro la tratta degli esseri umani e l’immigrazione clandestina e del controllo dei confini” è necessario prevedere che esso sia affiancato da ulteriore formazione e accompagnamento operativo al personale addetto perché le operazioni non escano dai binari della legalità, e sia monitorato dal comitato misto; e che nei punti di sbarco sia rafforzata la presenza delle organizzazioni umanitarie internazionali che operano in Libia nel campo delle migrazioni al fine della garanzia del rispetto dei diritti umani e della dignità della persona, oltre che dell’assistenza umanitaria e sanitaria, per le persone ivi sbarcate e destinate ai centri di accoglienza governativi.
Si tratta di un cammino realizzabile, anche se con molte difficoltà e molti limiti. Ma è un cammino da percorrere, convinti che anche in Libia – non sottovalutiamolo – ci sono volontà che vogliono percorrerlo e che vanno sostenute e affiancate. Anche in Somalia, stato fallito e terra di warlords nei due decenni che mi hanno visto presente nelle sue regioni centrali e meridionali, le Ong e le istituzioni internazionali hanno potuto affiancarsi a persone che aspiravano alla stabilizzazione e alla pace, sostenendo con convinzione e perseveranza la dozzina di conferenze di pace e le fragili istituzioni che ne sono derivate. In Libia questo cammino può essere fatto solo attraverso intese, pur deboli, che impegnino le istituzioni nazionali e locali. A mio avviso l’Italia, con maggiore trasparenza rispetto al passato, esercitandola e esigendola, potrebbe riuscirci, anche a beneficio delle istituzioni internazionali, anch’esse rallentate dalle difficoltà e complessità di questo paese.
Alle domande iniziali: “siamo così certi che abolendo il memorandum le persone più vulnerabili troveranno maggiore beneficio in Libia, dentro e fuori dai centri ed alle sue frontiere terrestri e marittime? che avranno maggiori speranze di uscire dalle loro sofferenze? che ci sarà più spazio per l’azione umanitaria, le pressioni per il rispetto dei diritti umani, le iniziative per la stabilizzazione, il dialogo tra le parti, l’azione internazionale?”, ritengo di potere rispondere di no e di essere timidamente certo del contrario. In contesti così difficili è sempre meglio, a mio avviso, tenere vive le intese, monitorandole e migliorandole ogni volta che si presenti l’opportunità, anche dietro la preziosa spinta delle organizzazioni della società civile e dei media. (NS@OnuItalia)