(di Arturo Zampaglione) ADDIS ABEBA, 30 GENNAIO – Con l’arrivo a Fiumicino nella notte tra il 30 e il 31 gennaio di ottantotto rifugiati eritrei e del Sud Sudan si completa la prima fase del grande progetto dei “corridoi umanitari” dal Corno d’Africa.
E’ stato un successo da ogni punto di vista: come testimonieranno i membri del governo italiano e i dirigenti della Comunità di Sant’Egidio e della Cei-Caritas giunti all’alba all’aeroporto romano per accogliere con caffè e cioccolato, striscioni e palloncini, bandiere tricolori e mazzi di fiori, il settimo e ultimo contingente partito dall’Etiopia. E si sta già lavorando assieme ai ministeri degli esteri e degli interni su un nuovo protocollo di “corridoi umanitari” per permettere ad altri 600 rifugiati, dopo i 500 della prima fase, di arrivare legalmente in Italia, facilitati da meccanismi di protezione e inserimento.
Tutti sperano che l’accordo sul secondo capitolo del progetto possa essere concluso in tempi brevi, visto anche l’appoggio di tutte le forze politiche, a cominciare dalla Lega di Matteo Salvini, e che i viaggi (compresi anche quelli dal Niger) possano riprendere anche prima dell’estate. Ma intanto questo ultimo sbarco a Fiumicino rappresenta l’occasione per un bilancio di un anno e mezzo di vita dei “corridoi”: lo facciamo con Giancarlo Penza, responsabile del Corno d’Africa per il dipartimento esteri della Comunità di Sant’Egidio, che insieme alla moglie Cecilia Pani ha diretto dall’Etiopia il ponte aereo.
-Penza, la selezione dei rifugiati per il “corridoio umanitario” è una delle fasi più impegnative del progetto. Chi avete scelto, e come, per questo ultimo contingente?
“Il criterio-base di selezione dei beneficiari, secondo il nostro protocollo, resta quello della vulnerabilità. Rientrano quindi una serie di categorie: vedove di guerra o di movimenti terroristi, giovani mamme con bambini, ex-prigionieri, vittime di menomazioni, portatori di handicap, feriti, malati che hanno bisogno di operazioni urgenti. Per la scelta, noi di Sant’Egidio e gli amici della Cei-Caritas, con cui guidiamo congiuntamente il progetto, ci facciamo aiutare dalle grandi agenzie dei rifugiati e dai religiosi che, in Etiopia, operano nel settore, a cominciare da Salesiani, Clarisse cappuccine e suore di Sant’Anna.”
“L’ultimo gruppo è composto da 70 eritrei che si trovavano nei campi nel Tigray, nel nord dell’Etiopia, gestiti dalla Unhcr, l’agenzia dei rifugiati delle Nazioni Unite, e di 18 sud-sudanesi dei campi alla frontiera del Sud Ovest. Nel complesso, i 500 arrivati dal Corno d’Africa sono per il 70 per cento eritrei, per il 18 per cento sud-sudanesi e per il 12 per cento somali”.
-Che succede quando arrivano in Italia?
“Tutto è pronto per l’accoglienza e la destinazione finale. Ognuno arriva a Fiumincino con un “vtl”, un visto a territorialità limitata, ottenuto un mese prima dall’ambasciata ad Addis Abeba sulla base di controlli, impronte digitali e il benestare dell’Unhcr e dell’Arra, l’agenzia etiope per i rifugiati. Appena sbarcati in Italia, dove chiedono asilo politico, sono sottoposti in una sala sterile a ulteriori controlli e nuove impronte digitali. Viene rilasciata loro una ricevuta della richiesta d’asilo che serve come documento fino a quando – dopo alcuni mesi (da quattro a otto) – non ottengono l’asilo dalle singole questure.”
“Noi li seguiamo in tutta questa fase e soprattutto, dopo l’espletamento delle procedure iniziali, li affidiamo agli individui, alle organizzazioni e alla famiglie italiane che hanno deciso di aiutarli e di accoglierli. La Caritas, ad esempio, ha da tempo lanciato il progetto “Rifugiato a casa mia”.
-Con questi 88 rifugiati, raggiungete il numero massimo di 500 previsto dal primo protocollo di intesa sul Corno d’Africa, a cui si aggiungono i rifugiati degli altri “corridoi umanitari”. Possiamo tentare un bilancio?
“Sì, sono già arrivati anche quasi 2mila rifugiati siriani dal Libano, dalla Turchia, dalla Giordania. Alcuni “corridoi” sono stati aperti anche in Francia e Belgio, anche con il concorso delle chiese protestanti. Certo, il progetto è nato con forze limitate (e senza alcun onere per lo stato) in un momento di maggiore apertura in Italia e in Europa per queste tematiche. E’ stato finora un tentativo pilota, anche perché, senza un coinvolgimento di tutta la società civile, non è possibile andare su numeri molto diversi da quelli attuali. Ma noi abbiamo sempre pensato che fosse una via replicabile, e ancora lo sosteniamo. Ed è sempre più importante – ce lo dicono anche i nostri partner in Etiopia – avere un canale legale di salvezza dei profughi, che possa servire al tempo stesso come speranza per milioni di rifugiati che si trovano nei campi e come deterrente per altre strade illegali e pericolose di attraversamento del Mediterraneo.”
AZ, 30-1-2019