(di Giorgio Del Gallo)
ROMA, 6 SETTEMBRE – Angelica De Vito, classe 1995, campana, dopo la laurea in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli, un LLM in Comparative and International Dispute Resolution alla Queen Mary University di Londra ed un Master in Relazioni Internazionali e Protezione dei Diritti Umani presso la SIOI, è attualmente Adviser per la Missione Permanente del Costa Rica presso le Nazioni Unite, oltre ad essere la vincitrice di una prestigiosa borsa di studio Fulbright presso la Pace University di New York. Oggi ci parla del percorso che l’ha portata all’ONU, delle sue passioni e motivazioni e dell’apporto dei giovani alla famiglia delle Nazioni Unite.
In primis, chi è e cosa fa Angelica De Vito?
Sono nata e cresciuta a Scampia, un quartiere con poche risorse ma che mi ha offerto tanto dal punto di vista sociale e culturale. Dopo essermi laureata in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli ho svolto due Master, uno in protezione dei diritti umani e l’altro inerente alla risoluzione delle controversie tra Stati nel Regno Unito, due dei miei più grandi interessi in ambito accademico. Sono riuscita a farli collimare con un interesse che ho sviluppato inizialmente grazie alle mie esperienze, prima locali e poi internazionali, vale a dire quello dei fenomeni atmosferici e le loro conseguenze sociali ed economiche sulle popolazioni. L’interesse è partito grazie alla redazione di piccoli documentari autoprodotti durante i miei viaggi all’estero, e si è successivamente evoluto fino a diventare la mia specializzazione universitaria e professionale. Attualmente sono infatti alla Pace University di New York grazie ad una borsa Fulbright, dove il tema principale dei miei studi sono i rifugiati climatici, ed allo stesso tempo sono Adviser della Missione Permanente del Costa Rica presso l’ONU, per la quale svolgo lo stesso compito. Il mio studio ed il mio lavoro si dividono dunque in due parti principali, la prima inerente al diritto, e la seconda alla vera e propria scienza e biologia dei fenomeni naturali che provocano le catastrofi.
Quali sono le tue principali mansioni all’interno della Missione?
Occupandomi di diritto ambientale ed in particolare rifugiati climatici, il mio obiettivo è quello di sviluppare e rafforzare il sistema giuridico inerente allo status di rifugiato climatico. Infatti, nella maggior parte degli Stati la categoria non è riconosciuta e non vi sono strumenti giuridici atti alla tutela della stessa, come ad esempio in Italia. Oltretutto, purtroppo c’è una mancanza di consapevolezza su questo tema, poco affrontato poiché il concetto di rifugiato è ancora legato all’esperienza della guerra e dei conflitti più che a quella dei fenomeni climatici. Alcuni paesi però, specialmente in Sud America, stanno lentamente dando più importanza al tema per via del sempre crescente numero di fenomeni che impattano l’economia e le popolazioni locali. In termini tecnici, il mio lavoro consiste principalmente in attività di ricerca e stesura di rapporti legati per la maggior parte alla seconda e terza commissione dell’Assemblea Generale. La seconda (ECOFIN) infatti misura l’impatto dei fenomeni climatici dal punto di vista economico e finanziario, mentre la terza (SOCHUM) l’impatto umanitario, culturale e sociale.
Quanto è importante portare la propria esperienza personale e locale in un contesto tanto globale e universale come quello delle Nazioni Unite?
Portare la propria esperienza personale è di fondamentale importanza, quanta più esperienza personale hai, tanto più quando ti trovi fisicamente qui ti rendi conto che le persone che si trovano in ruoli apicali spesso hanno una storia importante dietro. Per quanto mi riguarda, il fatto che io fossi di Scampia inizialmente ha generato interesse nei miei confronti, perché le persone si chiedevano cosa portassi e come fossi arrivata qui da un posto che è conosciuto principalmente per fiction come Gomorra e tutto l’immaginario che si portano dietro. Quando sono riuscita a comunicare che c’è anche un’altra realtà nel posto da cui vengo, e soprattutto che il mio obiettivo è portare questa realtà fuori dai confini del mio quartiere per migliorarlo, non quello di scapparvi, ho avuto dei riscontri positivi immediati in ambito lavorativo e personale. In più, ritengo che sia importante avere una motivazione personale che esuli dall’ambizione. Molte volte ho sentito giovani dire che sognavano di lavorare all’ONU senza poi aver realizzato in quale settore o per quale motivo. L’ambiente che di per sé è molto stimolante e vibrante rischia di non essere abbastanza per essere soddisfatti e gratificati se non si ha bene in mente perché si vuole lavorare in questo contesto.
Oltre al lavoro dunque, quali sono le passioni e le esperienze che ti hanno portato fino a questo punto?
Dipingo da quando sono bambina e da iniziale hobby questa passione si è trasformata in un’opportunità di impegno sociale. Da sempre sono infatti molto attiva nel volontariato e nelle attività di inclusione sociale, nel mio quartiere prima e fuori dall’Italia poi, e la volontà di offrire qualcosa al mio quartiere si è fusa con la passione della pittura nella creazione di un’associazione che aiuta i bambini a comunicare tramite la color therapy. Per me infatti, l’arte ed i colori sono stati strumento di espressione e di analisi profonda, e volevo provare ad utilizzare questo strumento per aiutare anche gli altri. I risultati sono stati sorprendenti, tali da riaprire un caso di omicidio, ed ho avuto anche il piacere di presentare il progetto sulla piattaforma TedTalks. Ho portato il progetto della color therapy anche in Cile, dove ho collaborato con un progetto dell’ONU destinato all’inclusione sociale della tribù dei Mapuche. In generale, ho sempre affiancato lo studio che, voglio sottolineare, è la prerogativa principale per essere in questo mondo, a passioni che potessero andare di pari passo con il volontariato e i progetti di inclusione sociale.
L’arte ha contribuito anche a supportare il tuo percorso professionale oltre che ad essere strumento di impegno sociale?
Decisamente sì, ad esempio la creazione di video-documentari su temi inerenti al mio percorso di studio e professionale è una manifestazione artistica che fa da supporto alla mia carriera. Da quando ho 18-19 anni sono solita documentare durante i miei viaggi i flussi migratori o la situazione sociale ed economica del luogo in cui mi trovo. L’ultimo documentario (El Clima Rico), e quello in cui ho messo più mezzi ed impegno, riguarda Porto Rico, dove sono stata a maggio. La scelta è ricaduta su Porto Rico perché, oltre ad essere stato duramente colpito per due volte di fila da un terribile uragano, ha un particolare status giuridico che lo inquadra come territorio statunitense, sebbene i cittadini di Porto Rico non possiedano tutti i diritti destinati ad un “normale” cittadino americano. Ciò ha in alcuni casi complicato l’arrivo di aiuti umanitari a causa di una lenta ed inefficace burocrazia, ulteriormente complicando la ripresa economica e sociale dell’isola. Per fortuna, gli Stati Uniti stanno finalmente considerando di destinare il TPS (Temporary Permit Status) per ragioni legate a disastri naturali ai cittadini di Porto Rico, sulla falsariga di ciò che è avvenuto con Haiti. Sono contenta che il documentario uscirà a breve, il mio obiettivo è proprio infatti quello di trasmettere le emozioni e le esperienze di chi ho incontrato, persone che hanno perso tutto ma hanno deciso di rimanere per mancanza di alternative o per volontà di ricostruire la terra di cui sono innamorati. In ciò ho rivisto lo spirito di tutte quelle persone che lavorano duramente per il mio quartiere, dove diciamo “dove mangiano quattro ne mangiano dodici”, e il riscontro di un tipo simile di solidarietà mi ha ulteriormente gratificato.
Infine, quali piani riserva per il futuro un tipo di carriera come la tua?
Il mio obiettivo è sempre stato gravitare intorno al sistema ONU, ma fortunatamente ci sono varie strade, alternative e non, per fare si che ciò avvenga. Ad esempio, la carriera accademica mi ha da sempre intrigato, a maggior ragione poiché non è incompatibile con una partecipazione attiva nel sistema ONU e in tutto il complesso di ONG ed istituzioni che vi gravitano intorno. Anche la carriera diplomatica è stata ad un certo punto un mio obiettivo, ma lavorando al Palazzo di Vetro mi sono resa conto di avere a che fare più spesso con professionisti provenienti da altri settori e background rispetto a diplomatici di carriera, motivo per cui ho deciso di mettere questa opzione in standby. La borsa Fulbright prevede un waiver, ovvero che successivamente al mio periodo negli Stati Uniti io debba passare almeno due anni in Europa, quindi verosimilmente al termine della mia esperienza farò ritorno in Italia. Una porzione importante della mia scelta verrà poi sicuramente determinata dalla possibilità di svolgere una vita professionale compatibile con quella familiare. (@giorgiodelgallo)